Relazione di suor Lancy su prof. Caterina Conio

Incontro su Caterina Conio -   Pisa, 9 Aprile 2013

Ho avuto la fortuna di incontrare la Prof.ssa Conio proprio grazie a don Roberto Filippini. E’ stato lui a suggerirmi scegliere il tema della tesi sul dialogo interreligioso tra cristianesimo ed induismo. E mi ha affidato alla guida della Prof.ssa Conio che mi aprì davanti il meraviglioso mondo del vero Induismo. Che come Ghandi stesso diceva sull’induismo: Ci sono due tipi di induismo: uno deformato con i suoi rigidi sistemi di caste, dell’intoccabilità, con le superstizioni, con i sacrifici degli animali e adorazione degli idoli fatti di pietra ecc, ma quell’altro, quello vero è l’induismo delle Bagavadgita, delle Upanishad e dello yogasutra La Prof.ssa Caterina Conio mi ha fatto conoscere specialmente tre monaci cristiani europei: P. Monchanin, Henri Le saux della Francia e P. Bede Griffiths, un Inglese. Con la loro scelta radicale ed inaudita di immergersi nello studio delle Sacre Scritture indù per entrare nell’anima del vero induismo, li contraddistingue di una particolare luce nell’ambito del dialogo interreligioso tra queste due tradizioni religiose: cristiana ed indù. Loro non hanno condotto un dialogo interreligioso “a tavolino”, ossia confrontandosi solo intellettualmente da occidentali e da teologi cattolici, con l’induismo. Di fatto hanno condiviso con l’India, con la tradizione vivente dell’induismo, la propria vita, la propria ricerca spirituale, la propria sete di assoluto. Anzi, con straordinario coraggio essi hanno condotto un autentico dialogo interreligioso, svuotandosi del proprio orgoglio e del proprio occidentale senso di superiorità e di autosufficienza, calandosi completamente in questa esperienza, facendo incontrare nel proprio animo due mondi, due culture, due religioni, due sensibilità spirituali.

Jules Monchanin (1895-1957), nato in Borgogna da una famiglia borghese profondamente cattolica, avverte appena tredicenne la vocazione al sacerdozio, studia e si forma nel vivace ambiente intellettuale di Lione e inizia a interessarsi di filosofia e di orientalistica, dimostrando grandi doti intellettuali e apertura mentale. Nel 1922 è ordinato sacerdote, presta servizio in parrocchie abitate dai poveri della società industriale e coraggiosamente prende posizione in loro difesa. È amico di importanti teologi come H. de Lubac e s’interessa anche al vicino islam. In punto di morte per una grave malattia, fa voto, in caso di guarigione, di dedicarsi completamente alla salvezza dell’India. Nel 1939 è invitato in India, dove visita vari luoghi ricchi d’arte e studia l’inglese, il tamil e il sanscrito. La sua aspirazione a «ripensare il cristianesimo in modo indiano» si scontra con varie difficoltà e delusioni che sembrano indurlo negli ultimissimi anni a un «ripensamento». Costretto a rientrare in Francia per essere operato, vi muore nel 1957.Abbè Jules Monchanin nato in Borgogna, Francia nel 10 Aprile 1895, divenne sacerdote nel 1922,arrivò in India nel 1939. Il suo ideale era quello di far sorgere dal suolo e dall’anima dell’India una vita monastica dedicata alla contemplazione del Mistero Trinitario. Sbarcato in India P. Monchanin trovò un ambiente ecclesiastico prevalentemente coloniale che ignorava del tutto le tradizioni dell’Induismo che era considerato dai cristiani come un’invenzione del diavolo. P. Monchanin ha scoperto che nel cuore dell’India sta il monachesimo che vive e incarna i valori spirituali dell’Induismo di cui era rimasto affascinato già prima di arrivare in India. In India egli si rese conto dei grandi messaggi che i gurù indiani hanno lasciato e lui voleva rivolgersi a questa tradizione antica. Egli intuì che furono e sono tuttora i monaci coloro che provarono e realizzarono più intensamente ciò che era latente nell’anima dell’India. Monchanin si accorse che l’induismo popolare non era consapevole della propria ricchezza spirituale fino a sembrargli che gli indiani avessero smarrito l’India. Perciò anche la conversione al cristianesimo avvenuta in massa non dava segno di integrazione tra queste due tradizioni spirituali. Così l’ottimismo ed entusiasmo giovanile di P. Monchanin si scontrò con un ambiente senza ossigeno in cui anche i desideri più belli rischiavano spegnersi.

Monchanin intuì che c’era bisogno di un primato della mistica sulla teologia, sulla liturgia, sulle istituzioni. L’origine socialmente bassa della stragrande maggioranza dei cristiani ha comunicato alle chiese indiane timidezza e assenza di slancio. Solo la conversione dei brahmana gli indù della casta alta) avrebbe portato al cristianesimo indiano uno stile proprio e qualità specificante indiane. Questi dotti abituati a sentire i testi oscuri dei Veda e delle Upanishad e a scoprirvi numerosi sensi reconditi, non possono accontentarsi di una esperienza catechetica della dottrina cristiana.

I filosofi indiani sostengono che è impossibile vivere senza un metafisica che dà senso alla vita e alle cose. La particolarità della filosofia indiana sta nel non poter essere separata dalla dimensione religiosa dell’uomo, perché la base filosofica sta nell’esperienza religiosa degli uomini spirituali, i saggi, che hanno cercato di trovare un rimedio, una soluzione ai problemi della vita, scoprendo un ordine eterno. La filosofia indiana è una speculazione attraverso un’inquietudine spirituale. Anche P. Monchanini ha sentito il bisogno di scrutare i testi sacri dell’India sottoponendosi ad un gurù spirituale indù ma ben presto si accorse dell’enorme difficoltà che presentava un simile progetto, specialmente da parte ecclesiastica che considerava l’induismo “irrevocabilmente fuori e contro il cristianesimo”.

Dopo alcuni anni difficili come parroco, nel 1947 la sua strada s’intreccia con quella di H. Le Saux, che condivide il suo sogno di fondare un vero ashram hindu-cristiano dedicato alla contemplazione della Trinità. Visitano insieme l’ashram del santo hindu Ramana Maharshi e, con il permesso del vescovo locale, avviano la loro fondazione monastica con due piccole capanne lungo il fiume sacro

Kaveri. Monchanin assume il nome spirituale di Swami Parama Arubi Anandam, ossia «Colui la cui beatitudine risiede nel Supremo senza forma», in riferimento alla sua devozione allo Spirito Santo.

H. Le Saux (1910-1973) nasce in Bretagna da famiglia numerosa e di grande fede, che incoraggia la sua precoce vocazione. Mentre studia in seminario, la madre rischia di morire di parto ed Henri fa voto di dedicarsi completamente alla vita religiosa, divenendo più tardi benedettino. Nel 1935 riceve l’ordinazione sacerdotale e dopo la guerra si dedica allo studio e alla preghiera. Matura la sua vocazione per l’India, dove sogna di trapiantare la tradizione monastico-contemplativa benedettina, oppure di vivere come un eremita solitario, secondo la più antica tradizione monastica sia cristiana, sia indiana. Nel 1948 raggiunge Monchanin in India e con lui nel 1950 fonda il Saccidananda Ashram di Shantivanam, prendendo il nome spirituale di Swami Abhishiktananda, ossia «Colui che trova la propria gioia nel Cristo, l’unto del Signore».

Ma quando arrivò Henri Le Saux in India nel 1948 ad affiancare all’esperienza straordinaria che P. Monchanin stava vivendo in India, era ben intenzionato a rivolgersi al cuore dell’India dove risiedevano i grandi insegnamenti e l’esperienza spirituale dei grandi mistici dell’India e dei maestri e i saggi indù. Egli ha capito che per penetrare dentro le dottrine dell’Induismo, specialmente esplorare la dottrina dell’advaita (la non dualità) per scoprire il segreto del Guha interiore (Cripta del cuore) come P. Monchanin ha tentato di fare, non si poteva parlandone e discutendone, ma solo gettandosi umilmente ai piedi di un maestro e ascoltandolo attentamente con cuore aperto e pieno di fede. Così egli fu il primo monaco cristiano che si lasciò guidare da un gurù (maestro) indù, nella convinzione che nella cripta del cuore, dove dimora il risplendente mistero , penetrano solamente coloro che rinunciano a se stessi.

In India le chiese cristiane di qualsiasi confessione si sono sempre mostrate agli occhi degli indiani come istituzioni ben organizzate, più o meno ben amministrate, liturgicamente efficienti, compromessi con il mondo e con le sue pompe con potere politico, ma gli indiani abituati a vedere l’ideale del Santo nell’uomo povero e nudo, ricco soltanto dell’immensità divina, stentano a riconoscere nel clero e nel laicato cristiano qualcosa che assomigli pur vagamente a Gesù Cristo. Secondo questi nostri sannyasin ( monaci) il cristianesimo doveva incarnarsi nei modi di vita, di preghiera, di contemplazione propri della civiltà indiana. E’ il metodo di conversazione di Cristo con gli uomini. Di fronte a tutte le civiltà la Chiesa deve morire per risorgere inculturandosi in esse, perché la Chiesa deve perpetuare il mistero di Cristo che è un mistero di morte e di risurrezione. Essi presentarono un cristianesimo che preserverà l’induismo in ciò che ha di sacro. Essi vollero assumere un atteggiamento nuovo nei confronti dell’induismo per cui P. Monchanin soleva dire che non si può versare vino nuovo dell’India nei vecchi otri dell’Europa. Bisogna che l’India stessa crei

la propria forma di vita contemplativa nei modi esteriori ed interiori tipicamente indiani. Questa sua idea s’incarnò nell’ashram (Eremo) cristiano – indù del Santivanam (Foresta della Pace). La logica dell’incarnazione deve arrivare al suo culmine nella totale kenosi vissuta da Gesù ed è la via che è stata scelta da loro per rispondere docilmente all’ispirazione dello spirito. P. Monchanin conoscendo che il pensiero indiano è sempre stato impregnato di metafisica, propone anche l’idea di un apostolato intellettuale per cercare una conciliazione delle divergenze delle filosofie indiane nella sintesi del cristianesimo che armonizza trascendenza ed immanenza di Dio proprio nell’incarnazione in cui Dio senza perdere della propria trascendenza assume la sua creazione trasformando la materia in un veicolo del divino.

Essi erano convinti che un incontro tra l’induismo e il cristianesimo è possibile entrando dentro le intuizioni delle Sacre Scritture di ambedue le religioni. Sono due forme dell’unica rivelazione di Dio tradotte nel linguaggio cosmico e quello biblico. Mentre i profeti di Israele furono araldi della Parola, i rishi (i saggi vedici) dell’India erano testimoni privilegiati del Silenzio di Dio. Essi si avvicinavano l’uno e l’altro alla Santa montagna da versanti opposti e se si fossero incontrati non si sarebbero riconosciuti e tuttavia entrambi erano dei precursori di Cristo in cui s’integrarono la Parola e il Silenzio di Dio.

Il vero dialogo tra induismo e cristianesimo si può ottenere solo al livello spirituale dell’esperienza dell’Assoluto, cioè capire che se uno era lo Spirito che aveva ispirato, in diversi modi, le rivelazioni dei vari popoli, uno era l’esperienza religiosa nella sua scaturigine, ad essa bisogna ritornare come base di ogni dialogo e di ogni comprensione. E solo togliendosi dalle incrostazioni o sovrastrutture di cui si è venuto caricando il cristianesimo occidentale, si può favorire questo incontro delle religioni.

Proprio per questo i nostri gurù cristiani scandagliarono dentro la dottrina della non dualità dell’Induismo che afferma al di la delle diversità psiclogiche, nell’uomo esiste un fondo immutabile: l’atman ( il sé). E analogamente anche nell’universo, al di là dell’apparenza, esiste un sostrato immutabile, rigorosamente uno, il Brahman (il Sé assoluto). I testi celebri delle Upanishad identificano l’atman unico in tutti gli uomini a quest’Unico Brahman. E’ la dottrina della non dualità cioè la dottrina dell’advaita dell’essere, non c’è essere al di fuori dell’Essere. Essi hanno compreso che l’esperienza dell’advaita è un’esperienza dell’annientamento dell’atman dentro Brahman e Henri Le Saux usava l’esempio del bimbo nel seno della mamma per manifestare il mistero di Dio delle Upanishad. Eè la rivelazione di JHWH sull’Horeb(ES 3, 15). “Io Sono Colui che Sono” Egli solo E’ Niente fu e niente sarà all’infuori di Lui.

Partendo dalle Upanishad che dice: pienezza è quello, pienezza è questo, dalla pienezza la pienezza procede, della pienezza quando la pienezza è stata attinta non resta che pienezza. P. Monchanini

dice la pienezza è la presenza dell’essere a sé come il contenente che dà l’essere al contenuto per es. la cavità del mare che fa esistere il mare, come il cielo (spazio) che fa esistere il cielo. Questa presenza è l’atman, quindi il sat(essere) è presenza dell’atman all’atman. Così introduce una dualità nell’uno. Essere è unità di questa dualità, una struttura sin ontologica una pluralità costitutiva dell’unità come la caratteristica essenziale dell’essere pieno e presente a sé. Così arriva ad affermare che ogni essere in quanto essere è circuncessio abbozzata coè essere con, essere per all’interno di essere. Attraverso tutta questa riflessione metafisica P. Monchanin offre un abbozzo per trasformare la dottrina sankariana dell’advaita in dottrina cristiana trinitaria. Egli afferma che l’induismo senza sapere della ricchezza della sua unità (advaita), costituita da tre elementi: sat, cit, ananda aspetta la rivelazione del Mistero Trinitario. P. Monchanin vede la conversione dell’India analoga al miracolo di Cana. L’acqua dell’India che ha un solo sapore, quello dell’unità differenziata, verrà transustanziata nel vino inebriante del cristianesimo, il cui unico sapore risulta dalla compenetrazione dei tre sapori del Padre, del Verbo e dello Spirito.

In questo mistero di Dio dell’Induismo chiamato Saccidananda, considerato puro monismo, i nostri sannyasin introducono il paradosso cristiano dell’essere insieme dell’Uno e molteplice, l’esperienza cristiana del Saccidananda che è il culmine Trinitario dell’esperienza dell’advaita. Infatti il termine Saccidananda è composto da Sat che è l’Essere Puro, assoluto, che è l’Io sono; da cit che è la consapevolezza dell’Essere cioè l’automanifestarsi del Sat; Ananda è beatitudine eterna. Henri Le Saux identifò Sat al Padre, il principio assoluto, la Cit al Figlio, l’autocoscienza del Padre e l’ananda è lo Spirito Santo, l’amore che circola tra il Padre e il Figlio, è questo donarsi reciproco del Padre e del Figlio.

E’ molto interessante ciò che ci dice Henri Le Saux: Mentre nell’advaita il sé individuale scompare, si annulla davanti all’Io sono e non c’è assolutamente spazio per un reale incontro “faccia a faccia” per un vero dialogo, la Bibbia presenta un Dio che è in dialogo con l’uomo, che culmina in Gesù di Nazareth che seppe distinguere nel fulgore accecante dell’Essere, sé e il Padre. Lui, essendo Uomo – Dio poteva farlo. L’uomo non può avvicinarsi al suo Principio senza scomparire in esso; quando arriva alla sfera dell’Essere, non c’è più né Dio né lui, ma solo la gloria abbagliante di Colui che E’. Il Padre nessuno l’ha mai visto disse Gesù e ripetè Giovanni; era necessario che il Figlio stesso rivelasse all’uomo il suo nome, e il suo mistero. Occorrevano gli occhi divini di Colui che per natura è Sguardo eterno verso il Padre perché anche l’uomo diventasse capace di discernere, nella luce abbacinante del Sé, il volto del Padre, di guardarlo a faccia a faccia e di chiamarlo con tutta verità: Padre. Proprio il mattino della Risurrezione, quando si ridestò al Padre nella gloria dell’ascensione, Gesù ottenne a tutti gli uomini suoi fratelli il diritto di dire in perfetta verità l’Io e il Tu in quell’Io e Tu che si dicono l’un l’altro per l’eternità il Padre e il Figlio.

Entrando dentro l’esperienze mistiche induiste Henri Le Saux dirà che sono solo una fase penultima di preparazione rispetto alla più sublime esperienza della rivelazione Cristiana. Si tratta allora di vivere con coerenza da parte di noi cristiani la nostra spiritualità contemplativa donata da Dio nel Battesimo e rinforzata continuamente nell’Eucaristia in cui si sperimenta l’abissale discesa della morte e la risalita della Risurrezione di Cristo che è la stessa esperienza advaitica del totale annientamento. Vivere prima questa radicalità dell’essere cristiano, per essere questi gurù cristiani l’ape che la chiesa invia alle foreste inaccessibili del pensiero indù per raccogliere il miele dell’anubhava (dell’esperienza) dell’Assoluto.

Henri Le Saux visita più volte, prima con Monchanin e poi anche da solo, l’ashram di Shri Ramana Maharshi e si precisa la sua vocazione a un ascetismo più radicale e alla vita eremitica. Nel 1956 Le Saux incontra Shri Jñanananda Giri, altro grande maestro spirituale che segnerà profondamente il suo cammino. Con il tempo si evidenzia una divergenza di opinioni e di vocazioni tra Le Saux e Monchanin, che porterà alla separazione delle loro strade. Nel 1968 Le Saux affida definitivamente Shantivanam nelle mani di B. Griffiths e si trasferisce al nord dell’India, dove si dedica alla vita eremitica e all’insegnamento ai discepoli, fino alla morte nel 1973.

Alan Richard Griffiths, nato nel 1906 da famiglia anglicana, grande amante della natura e appassionato studente di letteratura romantica a Oxford, si converte al cattolicesimo e diventa monaco benedettino con il nome di Bede, svolgendo poi i ruoli di priore e maestro dei novizi. Studia a lungo le tradizioni filosofiche e religiose orientali e nutre il sogno di integrare la tradizione monastica cristiana con quella hindu. Nel 1955 finalmente riesce a trasferirsi in India e insieme a un confratello fonda un’abbazia benedettina vicino a Bangalore. Nel 1958 insieme a Francis Mahieu, fonda l’ashram di Kurisumala in Kerala, optando in modo sempre più radicale per il sannyasa e cercando di assimilare e integrare anche il cristianesimo locale di tradizione orientale. Nel 1968, su invito di Le Saux, Griffiths diventa superiore e maestro spirituale dell’ashram di Shantivanam, che viene affiliato all’ordine camaldolese e subordinato a quello di Kurisumala. Il suo nome da sannyasin in sanscrito, Swami Dayananda, significa «Colui che trova la propria gioia nella compassione». Sotto la sua guida questo centro «totalmente cristiano e totalmente indiano» ha suscitato e accolto numerose vocazioni religiose ma soprattutto migliaia di persone da tutto il mondo[4], animate da una più o meno consapevole ricerca spirituale, diventando sede di numerosi incontri interreligiosi e luogo di profonda pace e di mutuo arricchimento spirituale. Griffiths è scomparso nel 1993, ma molti discepoli cristiani e hindu ancora lo ricordano come il più noto e amato guru di Shantivanam.

Bede auspica una chiesa universale che abbraccia tutte le religioni, ma mette i punti fermi sull’incarnazione storica ed unica di Gesù, sulla Trinità e sulla Grazia come tipiche del cristianesimo. Egli è convinto che quando un indù riconoscerà il mistero pasquale, allora Cristo non sarà più solo un avatara ma Cristo sarà riconosciuto come figura storica.

Egli dice: Cristo non è venuto ad annullare la legge cosmica, ma a portare al compimento. Ascoltare con umiltà lo spirito che parla attraverso le sacre scritture indiane. I cristiani devono essere levatrici che portano alla luce il Cristo nascosto nelle scritture indiane.

Saccidananda Ashram

Bede griffiths prima di tutto cercò di riorganizzare la vita dell’ashram del Santivanam nei modi indiani. La struttura esteriore e la vita dell’ashram è una meravigliosa interazione delle due tradizioni religiose: cristiana e indù. Si accede all’ashram attraverso un portale in muratura(gopuram) adorno di statue secondo lo stile indiano. Una di queste rappresenta la Trimurti che, secondo la tradizione indiana, è simbolo dei tre aspetti della divinità: Dio creatore, Dio conservatore e Dio distruttore dell’Universo. La statua serve a ricordare ai cristiani la SS. Trinità.

Davanti alla chiesetta vi è una croce circoscritta da un cerchi. Il cerchio rappresenta il mistero cosmico, la ruota del Samsara e la ruota della legge (dharma), riferendosi così al tempo stesso alla tradizione indù e a quella budhista. La Croce all’interno del cerchio significa la Croce di Cristo è al centro dell’Universo e dell’esistenza umana. Al centro della Croce vi è la sillaba OM che nella tradizione indù indica la Parola da cui tutta la creazione proviene ed è quindi il simbolo del Cristo. La navata centrale della chiesetta (Mandapam) è coperta da un basso tetto di tegole e delimitata da semplici pilastri: è il posto dove i fedeli si raccolgono per pregare. In un architrave c’è la scrittura indiana: Saccidanandayanamah(onore alla Trinità)

Dalla navata si passa al Santo dei Santi (mulastana): sulla porta d’ingresso c’è una scritta in san scritto presa da una delle Upanishad, che dice: “Solo Tu sei l’Essere Supremo, fuori di Te non c’è altro Signore del mondo”, Più sotto vi è un scritta in greco:”Cristo Signore”. Una cupola di stile indiano, ornata di statue, sovrasta il santuario; questa cupola per la gente dei villaggi vicini è divenuta una catechesi silenziosa. Ai quattro angoli vi sono simboli dei quattro evangelisti: leone, uomo, bue e aquila. Più sopra, rivolte verso i quattro punti cardinali, ci sono figure di Cristo in differenti atteggiamenti: verso l’est, seduto su un trono regale, c’è Cristo Re e sotto di Lui la Vergine Regina del cielo. Al lato nord c’è il Cristo Sommo Sacerdote e sotto di Lui S. Pietro con le chiavi del regno. Verso sud c’è Cristo Maestro, seduto in posizione yogica e sotto di Lui S. Paolo. Infine, verso ovest, vi è il Cristo contemplativo e sotto di Lui S. Benedetto, il fondatore dei contemplativi dell’occidente. Nella vita esterna la comunità segue la regola di un ashram (eremo) indù e come nella tradizione indù, ogni monaco ha la sua capanna semplice con il tetto di paglia e vive separatamente. I monaci si radunano tre volte al giorno per pregare insieme e nel tempo della meditazione leggono non solo la Bibbia, ma anche i brani tratti dai Veda, dalle Upanishad e dai libri della spiritualità indiana.

Riporto qui alcuni stralci di un articolo di Sonia Calza (dottoressa in Lingue e letterature orientali, studiosa e pubblicista nell’ambito filosofico-religioso dell’India)

Le intuizioni dei tre gurù cristiani hanno ispirato – in India ma anche altrove – il movimento degli ashram hindu-cristiani piccole comunità ecumeniche e interreligiose votate all’approfondimento della spiritualità cristiana in comunione con l’induismo e con tutte le confessioni e le fedi religiose, strutturate sul modello tradizionale hindu di eremitaggio in cui dei discepoli si raccolgono intorno a un guru, un maestro spirituale, e la giornata è scandita dai tempi della meditazione, della pratica dello yoga, dell’insegnamento del maestro, della celebrazione di riti cristiani e hindu, come, ad esempio, la messa e l’arati, la comunione e l’offerta di prasad, la professione monastica e la sannyasa diksha.

Pur con modalità diverse, continuano a nascere nuove realtà che si ispirano ai grandi del passato e a nuovi maestri. Attualmente, la sola federazione Ashram Aikya, che accoglie, riunisce e mette in relazione gran parte di queste fondazioni indipendenti di ispirazione cattolica e variamente legate a ordini religiosi cristiani e hindu, conta come membri attivi ben quarantatré ashram, oltre a un numero in continua crescita di «ricercatori indipendenti» – religiosi o laici di ogni nazionalità – che condividono in modo diverso un analogo percorso e trovano in questa associazione e nei suoi incontri un punto di riferimento fondamentale.

Dopo le incomprensioni e le censure degli inizi, dopo le polemiche dei decenni scorsi e a prescindere dalla maggiore o minore considerazione di cui i singoli ashram godono anche all’interno delle stesse famiglie religiose cui sono affiliati, ora il movimento degli ashram è, secondo lui, un «segno» nella chiesa, una realtà tangibile e significativa in continua evoluzione, che non teme il confronto, anche dialettico, con altre esperienze, nella consapevolezza che nella chiesa deve sempre esserci un pluralismo di idee e di carismi. Ma gli ashram hindu-cristiani, soprattutto, compiono ogni sforzo per sfuggire alla «trappola» dell’istituzionalizzazione e alla tentazione della ricerca di modelli ideali fissi e di sicurezze per il futuro, proprio per mantenersi aperti al vento dello Spirito che «soffia dove vuole».

In questo senso ogni ashram è una realtà a sé e mai identica a se stessa: molti ashram degli inizi non esistono più o si sono trasformati, altri sopravvivono ma soffrono dell’assenza di un vero guru, di una guida carismatica all’altezza del fondatore, altri sono nati dall’esperienza dei precedenti con forme assolutamente nuove, come i family ashram (Eremo – famiglia) in cui possono ritirarsi e percorrere insieme una via spirituale, marito e moglie che abbiamo ottemperato ai propri doveri familiari, secondo l’antica tradizione hindu del vanaprastha (una vita ritirata nelle foreste). Certamente la loro opera non va misurata in termini numerici quantitativi. L’ashram è, per sua stessa natura, una realtà passeggera e tradizionalmente esiste solo in relazione alla presenza di un guru, un maestro autorevole, diversamente dalle istituzioni cristiane occidentali cui ci si preoccupa di assicurare continuità. L’esperienza degli ashram hindu-cristiani sembra vada letta proprio nella logica del seme o del lievito, per usare metafore evangeliche, una sorta di nuova modalità dell’essere cristiani. A questo proposito è particolarmente interessante scoprire le analogie, pur fra mille differenze, con altre esperienze di dialogo profondo, esistenziale, condotte altrove e a contatto con altre religioni. Queste voci non offrono solo stimolanti riflessioni e un modo diverso di pregare e mettersi in relazione con Dio, ma anche un modo nuovo di scoprire il sacro nel mondo, nella comunità umana tutta, nella natura, nella vita quotidiana.

Da parte hindu vi è molto rispetto e apprezzamento per queste originali fondazioni cristiane che non mirano assolutamente al proselitismo, ma condividono con le tradizioni religiose locali la ricerca di Dio, la pratica della meditazione, della lettura e dello studio dei testi sacri, che accolgono e ascoltano tutti e spesso offrono un aiuto alla popolazione circostante non attraverso l’assistenzialismo, ma facendosi promotori anche di attività economiche e di progetti di sviluppo. Ne è uno straordinario esempio, fra gli altri, il Kurisumala Ashram, immerso fra le lussureggianti piantagioni di tè del Kerala centrale, un monastero cistercense che ha «sposato» pienamente la tradizione monastica indiana, dove si possono vedere quotidianamente all’opera i monaci-sannyasin insieme a decine di lavoratori locali per gestire un grande e innovativo allevamento, un impianto di pastorizzazione del latte, estese piantagioni di frutta, spezie, tè e pascoli per gli animali, un impianto a biogas, un forno per il pane, un dispensario e altre attività che non solo rendono perfettamente autosufficiente per queste necessità il monastero (in cui vivono circa venti monaci e che ospita continuamente religiosi e laici in visita o in ritiro), ma offrono anche formazione professionale per chi lo desideri e un dignitoso sostentamento a oltre un centinaio di famiglie della zona. Padre Yeshudas Thelliyil, l’attuale abate, mostrandomi la piccola ma ricca biblioteca, ha sottolineato come in particolare in questo ashram di rito siro-malankarese, sia data una grande importanza allo studio delle Scritture e delle opere dei Padri del deserto, alla spiritualità orientale, alla meditazione, alla preghiera del cuore e alla tradizione dell’esicasmo. Quest’ultima è così ben si armonizza con quella upanishadica e dello yoga, da essere stata definita da alcuni una sorta di «yoga cristiano». Ma non si tratta assolutamente di un’eccezione: lo stesso Monchanin già ai tempi dei propri studi indologici in Francia aveva colto tali assonanze e individuato in questa tradizione del cristianesimo orientale un possibile punto di contatto e «ponte» con la spiritualità non cristiana orientale. Anche B. Griffiths, dopo una prima insoddisfacente esperienza di fondazione benedettina nei dintorni di Bangalore, aveva qui optato per l’adozione del rito siro e della tradizione della chiesa «autoctona», proprio perché più vicina alle fonti, all’origine del messaggio cristiano stesso e, quindi, più idonea a favorire l’incontro con la mistica hindu, a preparare quel «matrimonio tra Oriente e Occidente» che è sempre stato il suo ideale.

Oggi gli ashram hindu-cristiani sono spazi di accoglienza, ascolto e dialogo aperti a tutti, senza preclusioni o discriminazioni di religione, casta, status di vita o censo: una testimonianza importante ed efficace, specie in una società ancora così condizionata da pregiudizi. Ogni ashram intreccia relazioni e scambi in un atteggiamento di condivisione con gli ashram hindu, i loro guru e le comunità locali, anche con quelle di tradizione musulmana, pur se in misura minore. Mi sembra che proprio questa sia forse una delle nuove frontiere o sfide che dovranno affrontare lungo il loro cammino

fradelcor@gmail.com     © Francesca Del Corso 2012                     Sito MOLTO da perfezionare.....   :-)